Come prima, più di prima
Maggio 30, 2020A metà gennaio, proprio mentre il COVID19 dilagava silenziosamente in mezzo mondo all’insaputa di (quasi) tutti, Larry Fink, al secolo CEO di Blackrock (il più grande gestore privato di investimenti al mondo) sentenziava: “La crisi climatica rimodellerà la finanza mondiale”. Un modo molto elegante per annunciare urbi et orbi l’imminente spostamento di trilioni di dollari sui mercati finanziari a tutto beneficio delle società che strizzano l’occhio al gigantesco business del Green. Ché salvare il mondo dal global warming è molto bello, specie se con questo pretesto si riesce a gonfiare la nuova bolla finanziaria verde con cui i Migliori intendono sostituire quella ormai abusata dell’high tech.
A quattro mesi da quell’annuncio, mentre ancora si fanno i conti con l’epidemia che ha messo in ginocchio le economie di tutto il Pianeta, il nastro della narrativa mediatica si è riavvolto perfettamente, tornando a battere come nulla fosse la grancassa del global warming e degli investimenti gretini che tolgono tutti i peccati del mondo.
Il neo-giornale della famiglia Agnelli, per esempio, ci informa dell’ennesima petizione firmata dai soliti espertoni, a supporto della solita causa. No, non si parla dei 10,000 “scienziati” contro Montagnier, e nemmeno degli 11,200 “scienziati” contro i 500 dissidenti climatici: roba vecchia, numeri piccoli, da poveracci. Stavolta i firmatari sarebbero (il condizionale è d’obbligo) ben 40 milioni di “medici”, il che fa decisamente più fico perché nel dopo-COVID il medico è molto più spendibile mediaticamente del climatologo. I 40 milioni in questione avrebbero firmato una petizione che, nella sostanza, chiede a gran voce di investire camionate di trilioni di dollari nella lotta al cambiamento climatico e nella decarbonizzazione in risposta al Coronavirus.
La missiva in questione è una sequela di perle imperdibili tra cui spicca questa profonda riflessione squisitamente medica: “Se i governi apportassero importanti riforme agli attuali sussidi per i combustibili fossili, spostandone la maggior parte verso la produzione di energia rinnovabile e pulita, la nostra aria sarebbe più sana e le emissioni climatiche si ridurrebbero drasticamente, alimentando una ripresa economica che, da qui al 2050, darebbe uno stimolo ai guadagni globali del Pil per quasi 100 trilioni di dollari”.
Invece di servirsi delle loro illustri conoscenze in ambito medico per giustificare l’altrimenti inspiegabile collegamento tra coronavirus e “crisi climatica”, questi fantomatici 40 milioni di camici bianchi parlano all’unisono di alta finanza con la padronanza tecnica di Larry Fink. È davvero un mondo meraviglioso, quello dell’informazione globalista: ma se folle oceaniche di medici corrono a firmare petizioni in favore degli interessi di Blackrock, non sarà mica che che tra gli operatori finanziari di mezzo mondo si nasconde una moltitudine di virologi? Viste certe performance televisive, ci sarebbe quasi da sperarlo.
Ma l’afflato climatista post-COVID non si limita certo alle petizioni trilionarie dei soliti migliori. Il “Green” finisce per entrarci sempre, quando si parla di soldi. Forse perché verde è il colore dei dollari. Per esempio, tra le pieghe degli “aiuti europei” annunciati in questi giorni dalle solite entusiaste fanfare mediatiche, si celano elementi decisamente interessanti. Del mirabolante diluvio di 750 miliardi strombazzato dagli italici giornaloni, al netto dei soldi che sono semplicemente prestati, e dei contributi che l’Italia elargisce generosamente all’Unione, restano appena 38 miliardi. Soldi che forse l’Europa elargirà in 4 anni solo a partire dal 2021, e soltanto a condizione che siano investiti secondo priorità identificate dalla stessa Commissione Europea. Priorità ovviamente incardinate sulla “transizione green”.
In altre parole, pare di capire che in risposta all’emergenza del Coronavirus l’Italia riceverà (forse) dall’Europa una mancetta, ma solo a patto che questa sia investita per comprare pale eoliche tedesche, pannelli cinesi e magari qualche macchina elettrica francese imparentatasi di recente con la FCA. Ma non mancano certo i consigli per volare ancora più in alto, con il Vicepresidente della Commissione Europea Timmermans che istruisce l’Italia a convertire l’acciaieria di Taranto a “idrogeno pulito”, consiglio che renderebbe la produzione dell’acciaio 20 volte più costosa rispetto a quella attuale. Un vero affarone, per i concorrenti dell’acciaio italiano.
Certo sarebbe bello poter sfrecciare accanto alle piste ciclabili della Milano-by-Greta con una Peugeot e-208 nuova fiammante alimentata solo da mulini a vento e pannelli solari. Se solo si avessero i soldi per comprare la macchina e pagare una bolletta energetica (ancora) più cara. Eh sì, perché a dispetto della narrativa martellante dei padroni del vapore, sembra proprio che gli italiani abbiano problemi più impellenti da risolvere: secondo un recente sondaggio, infatti, in testa alle nostre preoccupazioni ci sono l’occupazione e l’economia, con l’ambiente fanalino di coda.
Sono davvero tempi bizzarri, quelli in cui si pretende che i cittadini europei, stremati da uno shock economico senza precedenti, diano il sangue per la “riconversione” di un modello energetico efficiente ed economico in uno inefficiente e costoso. Nel nome di un “problema” non percepito dai cittadini stessi come prioritario.
Le intenzioni di Larry Fink, dei suoi fratelli e dei loro media sono sicuramente lodevoli, disinteressate, filantropiche. Eppure qualcosa suggerisce che nonostante i loro generosi sforzi, quella della “transizione energetica” potrebbe non essere una storia a lieto fine.