Gelo in Europa: perché il vero freddo è diventato una rarità

(TEMPOITALIA.IT) In un’epoca in cui la memoria meteorologica sembra accorciarsi sempre di più, schiacciata dall’incalzare di stagioni sempre più miti, viene naturale porsi una domanda. O meglio, viene da chiedersi che fine abbia fatto il vero inverno. Se ci guardiamo indietro, l’ultima grande, inconfutabile ondata di gelo che ha investito l’Europa e l’Italia risale ormai a quasi sette anni fa. Stiamo parlando della fine di Febbraio 2018, un periodo che molti appassionati ricordano con una certa nostalgia, segnato dall’arrivo del Burian. Da allora, diciamolo chiaramente, abbiamo avuto episodi freddi, sì, ma nulla che potesse reggere il confronto con quell’evento o con i giganti del passato.

Ho voluto scavare a fondo in questa questione – una ricerca personale, se vogliamo – per capire perché il Vecchio Continente fatichi così tanto a produrre eventi di gelo estremo, specialmente se paragonato ad altre aree dell’emisfero boreale come il Nord America. Non è solo una questione di sfortuna o di coincidenze mancate; c’è di mezzo la geografia, la fisica dell’atmosfera e, insomma, una serie di tessere che devono incastrarsi alla perfezione.

 

I limiti geografici del nostro continente

Partiamo da un aspetto spesso sottovalutato: l’orografia. La conformazione geografica dell’Europa gioca un ruolo cruciale, direi quasi determinante, nel bloccare o filtrare le masse d’aria più crude. Se osserviamo il Nord America, notiamo che le principali catene montuose, come le Montagne Rocciose, sono orientate lungo l’asse nord-sud. Questo crea una sorta di autostrada naturale, un corridoio privo di ostacoli che permette all’aria gelida dell’Artico canadese di scivolare liberamente fino al Golfo del Messico. Lì il freddo entra letteralmente in casa senza bussare.

In Europa, la situazione è radicalmente diversa, quasi opposta. Le nostre catene montuose principali, in particolare le Alpi e i Pirenei, ma anche i Carpazi, si dispongono prevalentemente lungo un asse ovest-est. Questa barriera naturale agisce come uno scudo. Protegge, certo, ma al contempo isola il bacino del Mediterraneo e gran parte dell’Europa meridionale dalle discese fredde dirette. L’aria gelida, incontrando questi ostacoli – muri di roccia alti migliaia di metri – è costretta a girarci attorno, a scavalcarli perdendo le sue caratteristiche originali o, spesso, a rimanere confinata a latitudini più elevate. È un bene per chi ama il clima mite, un po’ meno per chi spera nella neve in pianura.

E poi c’è il fattore oceano. L’Europa è una penisola protesa nell’Oceano Atlantico e risente in modo massiccio della Corrente del Golfo. Questa immensa massa d’acqua calda, che scorre come un fiume invisibile, mitiga costantemente il clima delle nostre facciate occidentali. Basta guardare la latitudine di città come Londra o Parigi e confrontarle con località del Canada o della Siberia poste alla stessa altezza geografica per rendersi conto dell’abisso termico. Le ondate di freddo di origine marittima, quelle che ci arrivano da ovest o nord-ovest, sono intrinsecamente “addolcite” dal passaggio sulle acque. Possono portare maltempo, vento, pioggia, ma raramente quel gelo che ti paralizza il respiro.

 

Le vie del freddo e il serbatoio russo

Ma allora, da dove arriva il freddo vero? Quello che fa scendere i termometri a -10°C o -15°C anche in pianura? La risposta guarda a est. Le dinamiche che cambiano sensibilmente l’intensità delle ondate di freddo sono quelle continentali. Quando l’aria gelida non deve attraversare oceani temperati ma sprofonda attraverso la Scandinavia, o ancor meglio, proviene direttamente dall’Artico russo, la musica cambia. In questi casi, le masse d’aria transitano su territori vastissimi, interamente coperti di neve – pensiamo alle steppe russe o alle foreste finlandesi – e non subiscono alcuna mitigazione dal basso.

Anzi, accade il contrario. L’effetto albedo, ovvero la riflessione della luce solare da parte della neve, permette all’aria di conservare, se non addirittura accentuare, la sua crudezza originale. È aria pesante, densa, secca. Quando questa “bolla” riesce a muoversi verso ovest, muovendosi in moto retrogrado – cioè contrario al normale flusso dei venti occidentali – allora l’Europa sperimenta il vero inverno. Tuttavia, affinché questo avvenga, serve che il motore atmosferico si inceppi o, per meglio dire, inverta la sua rotazione abituale.

Non è un evento che capita tutti gli anni. Serve una configurazione barica perfetta: un’alta pressione che si allunga verso il Polo Nord o la Scandinavia e che blocca le miti correnti atlantiche, costringendo l’aria gelida siberiana a scivolare lungo il suo bordo orientale e meridionale, dritta verso l’Italia e i Balcani. È un meccanismo delicato, che basta un nulla a far saltare.

 

Il ruolo chiave dello Stratwarming

Esiste però un fenomeno – evento meteo rilevante – che più di ogni altro è capace di riscrivere le sorti di un inverno europeo, trasformando una stagione anonima in una pagina di storia climatica. Parlo dello Stratwarming, o riscaldamento stratosferico improvviso. Può sembrare un termine tecnico ostico, ma il concetto è affascinante. Immaginate che, a decine di chilometri sopra le nostre teste, in quella porzione di atmosfera chiamata stratosfera, la temperatura aumenti improvvisamente, anche di 50°C o 60°C in pochi giorni.

Questo riscaldamento violento destabilizza il Vortice Polare, quella grande trottola di venti gelidi che ruota sopra il Polo Nord. In condizioni normali, il vortice è compatto e trattiene il freddo alle alte latitudini. Ma quando avviene un Stratwarming di tipo “major”, la trottola impazzisce. Può rallentare, deformarsi o addirittura scindersi in due lobi distinti (il cosiddetto “split”).

Quando questo caos si trasmette dalla stratosfera verso il basso, fino alla troposfera – lo strato dove viviamo noi e dove avvengono i fenomeni meteorologici – le conseguenze possono essere estreme. I venti zonali, che soffiano da ovest verso est portando mitezza oceanica, si indeboliscono o si invertono. Si apre così la porta del freezer siberiano. È esattamente questo il meccanismo che può portare il gelo estremo in Europa, al pari delle grandi ondate di freddo che colpiscono il Nord America.

 

Tre esempi storici recenti

Per capire concretamente di cosa stiamo parlando, basta guardare al passato recente. Le date sono scolpite nella memoria di chi segue la meteorologia.

Prendiamo i primi di Febbraio 2012. In quel caso, una serie di pulsazioni calde verso la stratosfera polare innescarono una retrogressione gelida di portata storica. L’aria arrivò dalla Siberia, attraversò la Russia e si gettò nel Mediterraneo. Il risultato? L’Italia si ritrovò sotto una coperta di neve eccezionale, dalle pianure dell’Emilia Romagna fino alle porte di Roma. Fu un evento che unì il gelo continentale all’umidità mediterranea, creando nevicate da record in Appennino. In quel frangente, la disposizione delle figure bariche fu da manuale: un ponte di alta pressione bloccò l’Atlantico e aprì un’autostrada di ghiaccio da est.

Un altro esempio, diverso nella dinamica ma simile nell’origine, è quello dei primi giorni di Gennaio 2017. Anche qui, lo zampino del Vortice Polare disturbato fu evidente. Tuttavia, la traiettoria fu più orientale. L’aria gelida colpì duramente i Balcani e il versante adriatico dell’Italia, portando la neve fin sulle spiagge della Puglia e della Sicilia, mentre il Nord Italia restò al freddo ma a secco, protetto proprio da quella barriera alpina di cui parlavamo prima. Fu un freddo secco, tagliente, con temperature che crollarono ben al di sotto dello zero anche di giorno nelle zone interne del Centro-Sud.

E poi, ovviamente, c’è lui: il gran finale di Febbraio 2018. Lo Stratwarming che si verificò in quel periodo fu da manuale di meteorologia. Il riscaldamento in stratosfera fu talmente violento da spaccare in due il Vortice Polare. Una parte del nucleo gelido si staccò e migrò verso l’Europa, portando il famigerato Burian. Per alcuni giorni, le temperature in Pianura Padana e su gran parte del continente crollarono su valori che non si vedevano da decenni. Neve a Roma, gelo a Napoli, canali ghiacciati a Venezia e ad Amsterdam. Fu la dimostrazione che, quando l’atmosfera decide di giocare pesante, l’Europa non ha nulla da invidiare al Canada.

 

Perché è così difficile replicare questi eventi?

La domanda iniziale, però, rimane: perché è così raro? Perché dobbiamo aspettare anni, a volte decenni, per vedere simili configurazioni? La verità è che viviamo in una zona di transizione. L’Europa è il campo di battaglia tra l’aria mite atlantica, l’aria calda subtropicale africana e l’aria gelida artico-continentale. Affinché vinca quest’ultima, serve che le prime due si facciano da parte contemporaneamente, cosa che statisticamente accade di rado.

Inoltre, il cambiamento climatico in atto sembra influenzare queste dinamiche. Un Artico sempre più caldo potrebbe paradossalmente favorire scambi meridiani più frequenti (quindi più ondate di caldo, ma anche improvvise irruzioni fredde), ma al contempo rende le masse d’aria di partenza meno gelide rispetto a cinquant’anni fa. Se il “serbatoio” in Siberia o al Polo non è più così freddo come un tempo, anche l’aria che arriva da noi, pur essendo gelida, potrebbe non raggiungere i picchi estremi del passato.

C’è poi la questione della persistenza. Le ondate di freddo in Europa, anche quando arrivano, tendono a durare poco. L’Atlantico è un vicino ingombrante e “resiliente”; appena il blocco di alta pressione cede, le correnti occidentali riprendono il sopravvento, spazzando via il cuscino freddo in poche ore. È una lotta impari. Mentre nel Nord America il freddo ha una via d’accesso privilegiata e può stazionare per settimane alimentato dal suolo innevato, da noi il freddo è quasi sempre un ospite indesiderato che deve lottare per entrare e ancor più per restare.

 

In attesa del prossimo evento

Analizzando i dati e le tendenze, non possiamo dire con certezza quando avverrà il prossimo “Big One”. La meteorologia non è una scienza esatta nel lungo termine, è più simile al caos organizzato. Tuttavia, sappiamo che gli ingredienti ci sono ancora tutti. Il Vortice Polare continuerà a subire i suoi ciclici riscaldamenti, la Siberia continuerà a raffreddarsi durante la notte polare e le alte pressioni continueranno a provare a spingersi verso nord.

Magari accadrà il prossimo anno, o forse dovremo attenderne altri cinque. Ma una cosa è certa: l’inverno europeo, quello vero, non è morto. Si è solo nascosto, in attesa che quella complessa macchina di ingranaggi atmosferici – tra stratosfera e troposfera, tra oceano e continente – torni ad allinearsi perfettamente. Fino ad allora, ci accontenteremo di episodi minori, guardando le carte meteo con la speranza di vedere, ancora una volta, quelle linee blu scuro scendere dalla Russia e puntare dritte verso il Mediterraneo. Perché in fondo, ammettiamolo, un po’ di quel freddo pungente che ti fa sentire vivo, ogni tanto, ci manca.

 

Credit e approfondimenti:

per monitorare le anomalie della stratosfera e l’evoluzione del Vortice Polare, si possono consultare i dati ufficiali del NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) e le analisi stratosferiche fornite dal NASA Goddard Space Flight Center. Per le previsioni a medio termine e le dinamiche atmosferiche europee, il riferimento principale resta l’ECMWF (European Centre for Medium-Range Weather Forecasts). Inoltre, articoli scientifici sulla correlazione tra Stratwarming e clima europeo sono spesso pubblicati su riviste come Nature Geoscience.

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