Giri di Valzer

Qualche giorno fa il direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), Fatih Birol, ha sorpreso gli esperti del settore con dichiarazioni molto nette sulle prospettive mondiali dell’industria petrolifera:

  • La produttività dei giacimenti petroliferi a livello mondiale cala più velocemente del previsto
  • Il 90% delle spese sostenute dalle compagnie petrolifere è destinato semplicemente a sostituire la produzione perduta nel corso del tempo
  • I giacimenti shale si svuotano così rapidamente da richiedere sforzi sempre maggiori per rallentarne il declino.
  • Se le società petrolifere non investissero nella sostituzione delle riserve, le forniture mondiali di petrolio crollerebbero di 5.5 milioni di barili all’anno.

Le dichiarazioni di Birol hanno fatto alzare più di un sopracciglio. Innanzitutto perché appena un anno fa Birol e la “sua” agenzia gridavano all’universo mondo che c’era troppo petrolio, le compagnie petrolifere avrebbero dovuto produrne di meno, e in ogni caso grazie alla produzione green ci saremmo ritrovati presto ad avere addirittura 8 milioni di barili al giorno di produzione petrolifera di troppo: una enormità. E dove mai lo avremmo messo, tutto quel petrolio inutile?

Le riflessioni da fare, a fronte di questo sublime giro di valzer da parte degli espertoni di energia in questione, sono evidentemente tante.

Una industria mai in equilibrio

Cominciamo dall’ABC, raccontando una sconvolgente rivelazione per tutti quelli che si sentono rassicurati dalla pretesa immutabilità degli eventi che ritengono di poter controllare (clima incluso): l’industria petrolifera come qualsiasi altra industria estrattiva non è mai in uno stato di equilibrio. Se quell’equilibrio esiste è comunque solamente temporaneo perché sullo sfondo le dinamiche domanda-offerta lavorano già alla creazione del prossimo disequilibrio, e a menare le danze è il prezzo della materia estratta.

Per dirla semplice, quando il prezzo del greggio è alto, i produttori aumentano gli investimenti per produrne di più e massimizzare gli utili e questo getta le basi per il successivo eccesso di offerta (ergo, futuro calo del prezzo). Se il prezzo del greggio è basso, i produttori tirano i remi in barca: non ci sono abbastanza utili da investire in esplorazione, perforazione di nuovi pozzi e sviluppo di nuovi progetti: la produzione non tiene il passo della domanda e si creano le premesse per il prossimo aumento dei prezzi.

Il prezzo del greggio oggi è straordinariamente basso (dissentiranno gli automobilisti italiani, ma il peso delle accise è storia arcinota). Galleggia attorno ai 65$ al barile, l’equivalente di circa 33 centesimi di euro al litro: appena il doppio del costo di una bottiglia d’acqua al supermercato. È un prezzo ancora più basso se si considera l’inflazione accumulata a livello mondiale negli anni del post-covid.

Questo prezzo è talmente basso che le compagnie petrolifere non riescono (vendendo il petrolio prodotto) a produrre utili sufficienti da investire nella ricerca di idrocarburi e nella sostituzione delle riserve perdute. Non ci riescono non solo perché il prezzo del greggio è crollato, ma soprattutto perché il costo dei materiali necessari a perforare pozzi o costruire nuovi impianti è invece andato alle stelle (lo stesso motivo per cui in assenza di incentivi l’italiano medio non spenderebbe una lira in ristrutturazioni di immobili in questo momento storico).

Il grido di allarme della IEA altro non è che il riconoscimento (tardivo e per nulla sorprendente) del fatto che si stanno creando le premesse per una futura scarsità di offerta, e quindi per una esplosione dei prezzi.

Ma come mai i prezzi del greggio sono così bassi?

  • Propaganda green

Innanzitutto per colpa di certa propaganda climatica scassata, alimentata a sua volta proprio da quegli “esperti” del settore che avrebbero piuttosto dovuto mettere in guardia da assunzioni semplicistiche. Per anni si è raccontato infatti che l’elettrico avrebbe sostituito l’idrocarburo, che il petrolio era il passato e quindi non valeva la pena investirci un copeco anche perché era causa della “crisi climatica” e quindi andava boicottato.

Questa propaganda ha trovato riscontro sui mercati finanziari, dove i titoli petroliferi sono andati in sofferenza per mancanza di investitori (leggi “mani forti” che comprassero i titoli petroliferi includendoli nei loro strumenti finanziari). Il mancato afflusso di capitali nell’industria, unitamente alla pretesa degli azionisti di avere dividendi comunque generosissimi, e a fronte di un prezzo troppo basso del greggio, ha messo finanziariamente in difficoltà le oil company.

  • Sanzioni

Le sanzioni imposte alla Russia, all’Iran e al Venezuela hanno avuto un effetto enorme sul mercato petrolifero. La vulgata dei salotti dell’alta finanza, comicamente sgangherata, è che a causa delle sanzioni c’è meno petrolio in circolazione e quindi questo fa salire il prezzo del greggio. È vero invece il contrario: differentemente dagli auspici del legislatore europeo e americano, il petrolio come l’acqua…scorre, e soprattutto risponde al principio dei vasi comunicanti.

Perché il mondo non ruota tutto attorno ad USA ed Europa, anzi. E se americani ed europei non comprano l’olio dei rivali geopolitici, lo compreranno semplicemente i loro alleati: cinesi e indiani in testa. A un prezzo significativamente più basso di quello di mercato. E l’ABC dell’economia insegna che se il 15% dell’offerta mondiale di un bene viene venduta a sconto, anche il resto della produzione mondiale ne risentirà, e il prezzo calerà a livello globale.

Se è vero che il calo del prezzo era comunque auspicato da americani ed europei, è tuttavia altrettanto vero che per via delle dinamiche domanda-offerta descritte in precedenza, prezzi così bassi del greggio comporteranno una scarsità di offerta ancora più grave in futuro. Perché i prezzi non sono bassi a causa di una sovrapproduzione di petrolio, ma a causa di meccanismi distorsivi del mercato: ovvero la propaganda green e le sanzioni appena descritte.

  • L’OPEC

Una responsabilità importante ce l’ha anche l’OPEC: il cartello dei produttori che nella versione “plus” (ovvero assieme alla Russia) produce circa il 40% del petrolio mondiale. Negli anni del post-covid l’OPEC aveva ridotto la produzione per sostenere i prezzi del greggio.

Ma sotto le recenti pressioni politiche dell’Amministrazione americana, e per la banale constatazione che la domanda mondiale di greggio continuava a crescere (a dispetto della propaganda Green) l’OPEC ha deciso di mettere fine ai tagli e re-introdurre sul mercato circa 2,5 milioni di barili di petrolio, con un altro milione e mezzo di barili che potrebbero essere reintrodotti in futuro.

La sarabanda mediatica di chi voleva l’olio a prezzi stracciati ha subito cavalcato le politiche dell’OPEC salvo (non) scoprire che anche l’OPEC fa propaganda, e pretende di poter produrre volumi di petrolio che in realtà non ci sono. Per motivi di prestigio, o più semplicemente di sostenibilità di bilancio dello Stato, alcuni membri del cartello dichiarano infatti di poter produrre più olio di quanto realmente possono.

Morale: nemmeno l’OPEC pare in grado di invertire le dinamiche in atto. Anzi, il fatto che dovrebbe ancora più preoccupare è che alla scomparsa della “spare capacity” dell’OPEC (per quanto teorica e valida solo sulla carta) non rimarranno neanche più giustificazioni di facciata per rassicurare il mercato di fronte alla crisi di offerta che già si prepara. E alla conseguente esplosione dei prezzi.

  • L’ignoranza

Questo quarto punto è anche e prima di tutto una sintesi dei precedenti tre. Ma sottende in generale al modo in cui i temi dell’energia vengono affrontati dai media e dal mondo della finanza (nonché dalla politica, che nel mondo occidentale è solo un pallido riflesso della finanza stessa): un modo semplicemente ignorante. Di chi, nella sostanza, semplicemente ignora del tutto la materia di cui pretende di parlare.

Come detto, grande responsabilità ricade sui cosiddetti “esperti” del settore che, incoraggiati (diciamo così) proprio dal mondo finanziario, si sono fatti paggetti dei desiderata dei loro padrini piuttosto che consiglieri saggi e affidabili.

La piroetta ridicola della IEA, che nel giro di 12 mesi si è ritrovata sulle stesse posizioni di quella stessa OPEC che proprio i cantori (interessati) della IEA hanno sempre accusato di inaffidabilità e “conflitto di interessi”, riflette proprio le responsabilità enormi di quel carosello di espertoni.

Espertoni che discettando di produzioni mirabolanti “non-OPEC”, di incrementi lineari di produzione petrolifera americana, e di sublimi sostituzioni di idrocarburi con mulini a vento e pannelli fotovoltaici hanno nascosto per anni l’elefante che si aggirava nella cristalleria: di petrolio se ne produce troppo poco, l’attuale prezzo di saldo potrebbe essere presto un ricordo del passato, e la propaganda degli scorsi anni stava, semplicemente, a zero.

E a proposito di ignoranza, crassa e ridicola del mondo petrolifero e delle sue dinamiche, vale la pena sottolineare che l’irrefrenabile bisogno di certa politica di affermare la propria capacità di controllare gli eventi all’insegna della “stabilità” si applica anche al campo dell’energia, così come del resto in ambito climatico.

Le meravigliose prosopopee sulle “transizioni green” si basano infatti sull’assunto totalmente scassato che una volta perforato un pozzo, il petrolio esce e continua ad uscire per sempre. Niente di più falso: un giacimento petrolifero è l’equivalente di una vasca da bagno: quando togli il tappo (ovvero perfori i pozzi) la vasca si svuota, e si svuota tanto più velocemente all’inizio, quando l’acqua nella vasca è ancora tanta.

Il miracoloso “shale” americano, poi, più che una vasca è una somma di minuscole bacinelle: appena togli il tappo queste si svuotano in brevissimo tempo, costringendoti a cercarne un’altra, o a togliere altri tappi quando già di acqua ne è uscita tanta. Una corsa contro il tempo che già mostra il fiatone (anche per motivi ambientali), e che presto presenterà il conto. Per tutti.

Conclusione

Sostituire la produzione petrolifera perduta nel tempo è sempre stata la prima e vera sfida delle società petrolifere, e non certo una “scoperta” della IEA di Birol. È una sfida sempre più difficile perché la gestione dei giacimenti non convenzionali è sempre più complessa e sempre più costosa. E perché le società petrolifere si muovono in un ambiente politicamente troppo ostile per fare, semplicemente, il loro lavoro.

A fronte di un prezzo del greggio mantenuto artificialmente basso con la propaganda green, con la manipolazione finanziaria e con le balle celoduristiche della cattiva politica occidentale e degli stessi produttori dell’OPEC, si stanno creando tutte le premesse perché quella sfida venga persa.

E se la sfida sarà persa non sarà certo il mulino a vento a salvarci: i prezzi del greggio andranno alle stelle, e soltanto allora partirà un nuovo ciclo che porterà realmente a produrre abbastanza idrocarburi da soddisfare la domanda mondiale. E da integrare, virtuosamente, con le altre fonti energetiche, nucleare in primis.

Ma quel momento potrebbe arrivare troppo tardi, per tutti. E avrà un prezzo tanto più alto quanto più forte sarà stata la distorsione delle fisiologiche dinamiche del mercato. La lista di ringraziamenti per i responsabili di quel disastro sarà molto lunga, anche se i punti sopra possono aiutare a farne un rapido sommario. Non c’è del resto alcun dubbio sul fatto che al momento giusto proprio quegli stessi responsabili salteranno fuori dicendo: “l’avevamo detto!”.

Fatih Birol, col suo elegante giro di valzer, è stato solo il primo. Altri, fatalmente, seguiranno.

 

 

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