“Anche la speme, ultima dea…” scriveva U. Foscolo in “Dei Sepolcri” poco più di due secoli fa e la speranza sarà il motivo dominante della Conferenza delle Parti numero trenta, che si è aperta il dieci novembre a Belém, città brasiliana di quasi un milione e mezzo di abitanti, al limite della foresta amazzonica.
Il momento storico non è dei più favorevoli alla Conferenza.
Gli Stati Uniti parteciperanno all’evento, ma, sembra, con una delegazione di livello estremamente basso, per cui molti osservatori pensano che il loro sia solo un atto di presenza.
L’Unione Europea che nelle scorse edizioni della Conferenza aveva assunto il ruolo di guida delle iniziative a favore del clima, oggi si limita ad un ruolo di retroguardia, come vedremo più avanti.
I Paesi produttori di petrolio già affilano i coltelli per mantenere in vita la loro principale fonte di ricchezza, attraverso l’escamotage della neutralità tecnologica.
I Paesi in via di sviluppo cominciano a rendersi conto che, alla fine dei giochi, tutto si riduce a roboanti annunci e vacue promesse, a beneficio delle opinioni pubbliche occidentali, mentre i soldi latitano o vengono destinati ad iniziative da cui traggono vantaggio quasi esclusivamente i Paesi ricchi e, pertanto, tendono ad irrigidire le proprie posizioni per ottenere i famigerati finanziamenti a fondo perduto destinati al fondo “loss and damage”.
I contrasti sono esacerbati, infine, dai conflitti geopolitici, in atto e potenziali, che affliggono il nostro tempo e che hanno relegato in secondo piano le tematiche climatiche ed ambientali, come si saranno accorti anche gli osservatori meno attenti. Di clima i mezzi d’informazione di massa hanno iniziato ad interessarsi, infatti, proprio a ridosso dell’evento brasiliano.
Da quanto ho scritto, appare evidente, quindi, che la COP 30 di Belém non nasce sotto i migliori auspici, per cui il pessimismo circa i suoi esiti, è piuttosto diffuso. Resta, però, la speranza che, alla fine, esca il classico coniglio dal cilindro sotto forma di una dichiarazione finale che possa trionfalmente annunciare il successo della manifestazione.
Andiamo, però, ad analizzare quelli che saranno i temi caldi della COP 30.
La prima nota dolente riguarda i famigerati Ndc, ovvero gli impegni di riduzione delle emissioni decisi su base volontaria dai Paesi firmatari dell’Accordo di Parigi. Ad oggi solo 64 Paesi (che rappresentano circa il trenta per cento delle emissioni globali) ha aggiornato i propri impegni. La maggioranza dei 177 firmatari dell’Accordo di Parigi è ancora inadempiente. Tra le sessantaquattro entità statali figura, da qualche giorno, anche l’Unione Europea che solo la scorsa settimana, dopo mesi e mesi di inutili trattative, è riuscita a raggiungere un accordo sui propri impegni (a maggioranza e, quindi, senza unanimità), durante una riunione dei ministri dell’ambiente degli stati membri. L’accordo è stato al ribasso e, perciò, ampiamente criticato dagli osservatori: la riduzione delle emissioni al 2040, in linea con la proposta della commissione, si aggirerà intorno al 90%, ma sarà “flessibile”. Si tratta del solito gioco delle tre carte: il taglio delle emissioni sarà in realtà dell’ottanta per cento, in quanto il restante 10% può considerarsi virtuale. L’accordo raggiunto prevede, infatti, di considerare “taglio” l’acquisto di crediti di carbonio fino al 5% sul mercato internazionale extra europeo e per un altro 5% sul mercato europeo. In termini terra terra, le emissioni ci saranno in ogni caso, ma saranno “compensate” da “crediti verdi”! Nonostante i trucchi contabili si prevede che al 2035 il taglio delle emissioni dell’UE potrebbe essere del tutto insufficiente per mantenere “a portata di mano” il contenimento dell’innalzamento delle temperature entro 1,5°C rispetto all’epoca pre-industriale.
Tra Paesi renitenti ad assumere impegni formali e vincolanti e trucchi contabili come quello escogitato dall’UE, sembrerebbe che neanche questa volta si raggiungerà l’obbiettivo annunciato in pompa magna a Parigi durante la COP 21. Sono trascorsi dieci anni e, stando all’ultimo report dell’UNFCC, la situazione non è delle più rosee sul fronte degli Ndc. Sembrerebbe, infatti, che nel 2035 il taglio delle emissioni rispetto al 2019 si aggirerà intorno al 17%: troppo poco per contenere l’incremento delle temperature globali entro i fatidici 1,5°C rispetto al periodo pre-industriale. Non è mancato, quindi, il rituale appello del Segretario Generale dell’ONU Guterres a non perdere altro tempo, con la speranza (ci risiamo) che la Cop30 si chiuda con “un piano d’azione globale utile a rimetterci sulla giusta traiettoria.” A confermare l’allarme lanciato dal Segretario Generale dell’ONU, sono arrivati i dati dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale che ha decretato, per l’anno 2024, un incremento delle temperature globali di 1,6°C rispetto al periodo pre-industriale: se i dati dei prossimi anni confermeranno quello del 2024, gli 1,5°C non saranno più “a portata di mano”, come amavano declamare i principali esponenti politici mondiali alla fine delle scorse edizioni delle COP. Stranamente il rapporto UNFCC non è stato del tutto negativo: qualche flebile speranza di raggiungere gli obbiettivi ancora esiste, perché gli Stati stanno cominciando a capire che bisogna agire sull’intero spettro economico e non solo sui singoli settori, come fatto fino ad oggi. E’ importante, cioè, che tutta l’economia sia coinvolta nello sforzo di raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni.
Altro aspetto piuttosto delicato è quello delle politiche di adattamento che i vari Paesi devono porre in atto per ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici sulla popolazione e sull’ambiente. Nelle scorse edizioni della COP si è stabilito che gli obbiettivi di adattamento globali (Global Goal on Adaptation) passavano attraverso i Piani di adattamento dei singoli Paesi. E qui casca l’asino, perché, come nel caso degli obiettivi legati alla mitigazione, anche nel caso dell’adattamento, molti Paesi (la maggioranza) sono in forte ritardo e, quasi per tutti, gli obbiettivi fissati, appaiono insufficienti.
Emblematico in proposito il caso dell’Italia. Il nostro piano di adattamento è stato approvato alla fine del 2023 e pubblicato all’inizio del 2024. Ad un’attenta analisi, presta il fianco a diverse critiche. Secondo alcuni osservatori il piano non è riuscito ad individuare una chiara priorità delle azioni di adattamento da porre in atto e, soprattutto, non chiarisce chi debba governare le azioni di adattamento e con quali fondi. Si tratta, quindi, del solito annuncio che copre la vacuità degli obbiettivi e la mancanza di mezzi e strumenti attuativi. Non è questo il luogo per approfondire la questione, ma ci sarebbe tanto da scrivere. Da quel che ho potuto capire, non sembra che i piani degli altri Paesi se la passino meglio.
Uno degli aspetti che maggiormente si dovranno tener sott’occhio durante la COP 30, è rappresentato dagli aspetti finanziari. La COP 29 si chiuse con l’impegno a costituire un fondo di 300 miliardi di dollari l’anno per finanziare i piani di adattamento nei Paesi in via di sviluppo: si trattò di un compromesso tra la richiesta dei Paesi in via di sviluppo di oltre mille miliardi di dollari annui e quelli ricchi che offrivano i soliti cento miliardi di dollari all’anno. A parte il fatto che si tratta di soldi che, forse, si cominceranno a vedere tra una decina d’anni, non è ancora chiaro chi gestirà queste risorse e quali saranno i criteri in base ai quali dovranno essere allocate. Lo scrissi già lo scorso anno ed ora lo ribadisco: ci troviamo di fronte ad impegni solo annunciati, ma privi di sostanza pratica.
Altro tema scottante da affrontare nel corso della COP 30, riguarda la fine dell’utilizzo dei combustibili fossili. Credo che i lettori ricorderanno le aspre polemiche circa la mancata adozione della “phase out” nel linguaggio della risoluzione finale della COP 28 di Dubai per tutti i combustibili fossili. La si limitò solo al carbone, ma non al petrolio ed al gas. E, soprattutto, non si stabilì alcuna norma vincolante per i Paesi partecipanti: tutto era affidato alla volontà dei governi nazionali. Difatti non se ne è fatto nulla, anzi i sussidi ai combustibili fossili sono addirittura aumentati negli ultimi due anni. In altre parole dal fossile non sembra che si uscirà a breve.
Secondo alcuni osservatori sarebbe stato ingenuo aspettarsi che dalle Conferenze delle Parti tenute in Stati produttori di petrolio e gas, emergessero decisioni tali da ridurre drasticamente le entrate dei Paesi organizzatori. La speranza è che in Brasile le cose cambino, ma chi spera ha fatto i conti senza l’oste. Il Brasile è il maggior produttore al mondo di bio-diesel e, quindi, farà di tutto per mantenere nella dichiarazione finale della COP 30 quei riferimenti alla neutralità tecnologica che erano, sono e saranno il cavallo di Troia dei Paesi produttori di combustibili fossili.
Persa la guida occidentale (USA fuori dai giochi, Unione Europea e Regno Unito che annaspano alle prese con i loro piani di riarmo ed agli impegni assunti con gli USA circa l’acquisto di energia rigorosamente fossile) resta la speranza che il ruolo di guida della lotta al cambiamento climatico venga assunto dalla Cina e dai Paesi africani. Personalmente sono molto scettico, in quanto la Cina non rinuncerà mai a fonti energetiche a buon mercato come i combustibili fossili (la Russia, pur di vendere il suo petrolio ed il suo gas sotto embargo occidentale, ha praticato prezzi estremamente favorevoli tanto alla Cina che all’India). Nessuno di questi due grandi Paesi, quindi, potrà guidare la transizione energetica tanto agognata dagli ambientalisti. Del resto, conoscendo il proverbiale pragmatismo cinese, mi sembra impossibile che la Cina accetti di limitare le sue fonti energetiche proprio durante uno sforzo senza precedenti, per fronteggiare alla pari la potenza statunitense che, per parte sua, sta puntando tutto sulle più economiche e sicure fonti fossili.
Un primo assaggio delle difficoltà che incontreranno i delegati a Belém si è avuto il 6 ed il 7 novembre. In città erano attesi i capi di stato e di governo dei Paesi che prendono parte alla COP 30. Molti sono mancati all’appello, in particolare spiccavano le assenze dei presidenti di Stati Uniti e Cina. Come si sa si tratta dei Paesi in vetta alle classifiche di emissione di diossido di carbonio e, insieme all’India, all’Unione Europea, alla Russia ed al Giappone, sono responsabili di circa il 50% delle emissioni globali. Senza di loro non si può parlare di mitigazione e senza gli USA non si può parlare di adattamento, perché essi hanno il portafoglio.![]()
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