La proposta di un sistema basato su dati che utilizzi indicatori di risposta per politiche di adattamento basate sull’evidenza
Di Gianluca Alimonti e Luigi Mariani
Il concetto di crisi climatica e le sue radici antiche
L’etimo del termine “crisi” pone in luce le profonde radici storico-culturali di tale concetto e l’uso sempre più ampio che se n’è fatto nel tempo, in primis per merito dei Greci antichi che dall’originario utilizzo agricolo a designare la vagliatura dei cereali (da cui l’uso figurato a indicare la capacità di discernere) lo estesero all’ambito medico (mutamento nel quadro dei sintomi che prelude alla guarigione o alla morte del paziente) e a quello giuridico (decisione del tribunale in merito all’innocenza o colpevolezza di un accusato). L’uso del termine crisi in ambito giuridico si ritrova anche nell’Antico e nel Nuovo Testamento, ove la crisi è associata all’attesa del giudizio finale e dunque a quelle visioni apocalittiche che saranno poi particolarmente diffuse in tempi in cui la vita e le attività umane saranno messe a repentaglio da carestie, epidemie, guerre e cambiamenti climatici.
All’applicazione al clima del concetto di crisi ci rimandano anche le recentissime riflessioni di Bill Gates il quale, suscitando l’ira di molti benpensanti, ha in sostanza affermato che:
- Il cambiamento climatico non costituisce una crisi esistenziale per l’umanità e, pur essendo un problema rilevante, lo è in ogni caso meno rispetto a fame, malattie e povertà.
- Elevati standard di benessere e prosperità sono la miglior difesa contro il cambiamento climatico.
Quella di Gates è una testimonianza importante ma non certo sufficiente a smentire le preoccupazioni sulla scorta delle quali migliaia di amministrazioni comunali di tutto il pianeta (compresa la città di Milano in cui gli autori vivono) hanno attivato dei “gabinetti di crisi climatica”.
Oltre il luogo comune
Per spingersi oltre il luogo comune occorre ad avviso di chi scrive partire dal rifiuto dell’uso retorico del concetto di crisi climatica che in anni recenti è stato fatto dai media e dalla politica, che sono giunti ad inculcare nell’opinione pubblica una lettura in chiave apocalittica della variabilità e del cambiamento climatico. Il fatto è che, in assenza di una definizione stringente, tale retorica è destinata a rimanere uno strumento nelle mani di coloro che per fini più o meno nobili alimentano interpretazioni allarmistiche o comunque irrealistiche.
Proprio per cercare di sfuggire a tale stato di cose, oltre un anno fa ci siamo lanciati nell’impegnativo lavoro di stesura di un articolo scientifico che, a seguito di un lungo processo di revisione tra pari, è finalmente stato pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Hazards. In tale articolo, dal titolo “Quantifying the climate crisis: a data-driven framework using response indicators for evidence-based adaptation policies”[1], proponiamo di giungere a una definizione stringente di “crisi climatica” fondata su un set di indicatori di risposta (Response INDicators – RIND) basati sulle forzanti climatiche (Climate Impact Drivers – CID) definite nell’ultimo rapporto AR6 dell’IPCC. In tal modo proponiamo in sostanza di seguire la strada già da tempo adottata a livello mondiale in campo economico: un Paese è ritenuto in “crisi economica” sulla base della valutazione dell’andamento di una serie di indicatori di performance dell’economia. Più nello specifico un Paese è in recessione tecnica a fronte di un calo del PIL per due trimestri consecutivi mentre è giudicato in crisi economica se tale situazione si protrae nel tempo, coinvolgendo indicatori economici come occupazione, reddito, consumi e investimenti.
Nel caso degli indicatori di “crisi climatica” da noi utilizzati (43 in tutto), le tendenze in atto sono state analizzate applicando il test di Mann Kendall a serie storiche di congrua lunghezza allo scopo di valutane la significatività statistica. Da tale analisi emerge che la maggior parte degli indicatori non mostra tendenze statisticamente significative al peggioramento come evidenziano i diagrammi delle figure 1 e 2, che sintetizzano i dati della tabella 1 del nostro articolo.

Nello specifico fra gli indicatori fisico-ambientali da noi considerati presentato tendenza positiva le aree alluvionate, la superficie fogliare globale, le aree soggette a incendio e il numero globale di incendi mentre presentano tendenza negativa i livelli atmosferici di CO2, la siccità, la precipitazione media globale, i volumi di ghiaccio artico e la temperatura in superficie. Sono infine stazionari i tre indici riferiti ai cicloni tropicali, i tre indici relativi ai cicloni delle medie latitudini, il numero di siccità disastrose, le alluvioni in Italia, il numero di disastri meteo-climatici e idrologici e il numero di disastri da temperature estreme e da incendi.
Fra gli indicatori socio-economici considerati nessuno presenta tendenze negative mentre presenta tendenza positiva il prodotto lordo globale, le rese delle 156 colture monitorate da Faostat e quelle delle 4 colture principali (frumento, mais, riso e soia), il gap di prosperità e la popolazione sotto la soglia di povertà. Sono infine stazionari i danni economici da siccità, alluvioni, temperature estreme, incendi e frane.
Fra gli indicatori sanitari considerati nessuno presenta tendenze negative mentre presentano tendenza positiva l’indice di disabilità, la mortalità per malaria, per inquinamento da ozono, per particolato sottile, per temperature estreme e per acque inquinate. Sono infine stazionarie le mortalità da cicloni tropicali, alluvioni, alluvioni in italia, da disastri meteo-climatici e idrologici.
Il fatto che la maggior parte degli indicatori non mostri tendenze statisticamente significative al peggioramento ci porta ad esprimere l’opinione generale secondo cui la “crisi climatica” non è a tutt’oggi evidente.

Da sottolineare è inoltre che l’andamento temporale degli indicatori d’impatto è spesso influenzato dalle politiche di adattamento e da altri fattori umani che tendono a prevalere sui fattori climatici. In tal senso si noti ad esempio che:
- L’influenza del clima sui conflitti è considerata minore rispetto a quella dei principali fattori di conflitto;
- L’impatto umano sulle malattie trasmesse da vettori parrebbe più significativo del cambiamento climatico, come dimostrato nel XX secolo dal calo dell’endemicità e della mortalità da malaria nonostante l’aumento delle temperature globali;
- La sensibile riduzione dei decessi causati da eventi meteorologici estremi può essere in parte, forse per la maggior parte, attribuita al miglioramento dei sistemi di protezione civile.
Tali esempi evidenziano che l’adattamento si rivela spesso più efficace della mitigazione.
Le politiche di adattamento al clima che cambia
Il fatto che la crisi climatica non sia a tutt’oggi evidente ci dice che abbiamo ancora tempo per progettare e porre in atto strategie di adattamento efficaci e sostenibili volte a migliorare la resilienza dei sistemi socio-economici e ambientali. Ad esempio, nel caso della siccità, ci si può adattare sia adottando tecniche di agricoltura conservativa che ottimizzano lo sfruttamento delle risorse idriche durante i periodi di scarsità sia promuovendo l’uso dell’irrigazione tramite la creazione di bacini idrici artificiali, che possono anche contribuire alla produzione di energia rinnovabile e alla prevenzione delle inondazioni. Nel caso invece degli incendi boschivi, le misure di adattamento includono la gestione razionale della lettiera forestale, l’istituzione di fasce tagliafuoco per prevenire la propagazione degli incendi e il mantenimento di adeguati servizi antincendio.
Per promuovere efficaci politiche di adattamento è estremamente importante:
- Migliorare e standardizzare le attività di monitoraggio in modo tale da disporre di dati di alta qualità e prodotti con regolarità in grado di orientare le scelte.
- Promuovere l’innovazione tecnologica a base scientifica come base per le strategie di adattamento al clima che cambia.
La nostra proposta è pertanto quella di adottare indicatori quantitativi di crisi climatica da aggiornare annualmente (e qui si potrebbero utilizzare gli indicatori proposti nel nostro articolo o altri, da scegliere comunque su base razionale) e di divulgarli alla collettività allo scopo di favorire la scelta delle priorità da parte dei decisori politici che operano ai diversi livelli (dai comuni alle entità sovrannazionali).
La speranza è che ciò possa favorire un approccio equilibrato che integri strategie di mitigazione e adattamento per affrontare gli effetti negativi della variabilità e del cambiamento climatico. Ciò sull’esempio di quanto fecero gli Stati Uniti d’America negli anni ’30 del XX secolo con la politica del New Deal, voluta dal presidente Franklin Delano Roosevelt di fronte alla crisi climatica indotta dalla mega-siccità nota come Dust Bowl, che produsse la desertificazione di vaste aree del Paese.
Concludendo possiamo affermare che se installare pannelli fotovoltaici o utilizzare auto elettriche può rivelarsi utile nell’ottica della transizione energetica, per evitare disastri quali quelli che hanno colpito la Romagna nel 2023 e nel 2024 è assai più efficace investire nella cura e manutenzione del territorio.
[1] L’articolo è disponibile gratuitamente sul sito: https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/17477891.2025.2571708![]()
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