COP 28 partita con il botto, ma non troppo

Dicembre 3, 2023 Off Di miometeo

Nell’articolo propedeutico all’inizio dei lavori della COP 28 di Dubai, ho cercato di individuare i principali (ma non gli unici) obbiettivi della Conferenza delle Parti emiratina:

  • meccanismo “Perdite e Danni” (lost and damage);
  • mitigazione;
  • adattamento;
  • individuazione dei meccanismi per l’attuazione dell’art. 14 dell’Accordo di Parigi;
  • mercato del carbonio, equità e giustizia climatica, sostenibilità, ecc., ecc.

L’articolo si concludeva con una previsione piuttosto pessimistica circa gli esiti della COP 28, con particolare riferimento alle problematiche connesse all’implementazione del meccanismo “delle perdite e dei danni”. Potete immaginare, quindi, la mia profonda sorpresa quando il dr. Sultan Al-Jaber, presidente della COP 28, nel corso del suo intervento di apertura dei lavori, ha annunciato l’accordo unanime sulla costituzione del fondo da cui prelevare le risorse per ripianare i danni e le perdite dei Paesi in via di sviluppo. Troppo bello per essere vero, mi sono detto. Dietro l’annuncio era evidente che c’era qualcosa che non quadrava: come diavolo avevano fatto a costituire l’Organo deputato a gestire il fondo in tre mesi circa? Come avevano fatto a stabilire chi e quanto deve versare al fondo? Possibile che mi sia sfuggito tutto il lavoro immenso che deve, necessariamente, precedere questi accordi?

È bastato poco, anzi niente, per capire il mistero: i versamenti al fondo non sono obbligatori e non quantificati in modo proporzionale e proporzionato al danno ed alla perdita causati. Ognuno versa ciò che vuole, teoricamente anche io o voi lettori potremmo contribuire al fondo. Nazioni come gli Stati Uniti d’America o la Cina (i principali emettitori di diossido di carbonio), non sono chiamati a versare nulla. La dimostrazione è subito servita: gli USA hanno dichiarato di voler contribuire con la miseria di 17,5 milioni (diciassette virgola cinque milioni) di dollari e la Cina, per ora, non ha comunicato alcun impegno. Giusto per fare qualche confronto la Germania si è dichiarata disponibile a contribuire al fondo con cento milioni di dollari, come il Paese ospitante, mentre anche l’Italia contribuirà con oltre cento milioni di dollari. Facciamo due conti e ci rendiamo conto che stiamo parlando di spiccioli (ad oggi primo dicembre, poco più di mezzo miliardo di dollari, complessivamente). Lo scorso anno (COP 27) la stima prudenziale del fondo era di cinquecento ottanta miliardi di dollari all’anno. I contributi dei singoli Stati al Fondo “perdite e danni” dovrebbero essere, quindi, di decine di miliardi di dollari cadauno (considerando che a versare dovrebbero essere i Paesi ricchi ed a prelevare quelli in via di sviluppo). Diciamo che tra il dire ed il fare c’è una differenza di circa… 579 miliardi di dollari. Siccome i conti si fanno alla fine della fiera, però, bisogna aver pazienza ancora qualche giorno.

L’annuncio della costituzione del fondo “perdite e danni” è, per ora, più un fatto formale che sostanziale, ma, ad ogni buon conto, rappresenta un passo nella direzione voluta dai governi dei Paesi in via di sviluppo e una prima goccia in un contenitore fino ad ora vuoto.

Passiamo, ora, ad analizzare il problema della sua gestione. Fino a tre o quattro mesi fa si parlava di un Segretariato, ovvero di una struttura dotata delle competenze tecniche ed esecutive per l’attuazione del meccanismo, cioè, il braccio operativo del sistema. Visto che nessuna soluzione al problema si delineava all’orizzonte, dovendo presentarsi all’apertura della COP 28 con qualcosa di concreto, tra ottobre e novembre, è stato deciso di affidare temporaneamente il fondo alla Banca Mondiale. I Paesi in via di sviluppo si sono opposti in modo fermo e deciso: essi considerano, e non a torto secondo me, questa struttura economica un’emanazione del potere coloniale ed imperialista dei Paesi sviluppati. La Banca elargisce i fondi richiesti dai Paesi in via di sviluppo a condizioni particolarmente onerose, in termini di politiche sociali ed economiche imposte ai Paesi “beneficiari” del finanziamento. L’investimento (perché di questo si tratta) deve, inoltre, essere vantaggioso per i Paesi che contribuiscono al fondo della Banca, perpetuando le condizioni di dipendenza dei Paesi in via di sviluppo da quelli sviluppati. Alla fine si è trovato un compromesso. Il fondo “perdite e danni” dovrebbe essere affidato alla Banca Mondiale, ma gestito da un Comitato, Collegio, Consiglio di Amministrazione, non si è ben capito, costituito da 26 soggetti di cui 12 nominati dai Paesi sviluppati e 14 da quelli in via di sviluppo. Considerando che i Paesi sviluppati sono in numero enormemente inferiore rispetto a quelli in via di sviluppo, ho l’impressione che questo “board”, per usare l’anglismo di rito, sarà un velo dietro il quale si muoverà la Banca Mondiale, diretta emanazione del potere economico e politico degli Stati Uniti che, tra l’altro, ne nominano il presidente.

A questo punto appare chiaro ed evidente il meccanismo creato: i Paesi sviluppati, considerati i principali responsabili del “disastro” climatico, contribuiranno volontariamente al fondo (non è scritto da nessuna parte, ma non è scritto da nessuna parte neanche il contrario) e decideranno a chi dare i fondi e come concederli, con buona pace della fantomatica giustizia climatica di cui tutti si riempiono la bocca. Alla fin dei conti i soldi rimangono in mano a chi li ha (i Paesi sviluppati), che li gestiranno come più gli piacerà. Come accade anche oggi. Esattamente il contrario di ciò che volevano i Paesi in via di sviluppo ed esattamente come hanno sempre sostenuto quelli sviluppati.

La frase che Tomasi di Lampedusa mise in bocca a Tancredi: “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, è più attuale che mai.

E non è finita qua. Oggi (primo dicembre) il presidente Macron ha annunciato che la Francia è disposta a versare “fino a” cento milioni di dollari al fondo “perdite e danni” a condizione che siano ben specificate le differenze tra Paesi “intermedi” e Paesi “poveri”. Tradotto: i soldi francesi non possono andare a Paesi come Cina o similari che “poveri” non sono. Immediata la reazione dei Paesi in via di sviluppo: ciò è preoccupante perché i contributori NON possono e NON devono condizionare l’uso dei fondi che hanno versato a titolo di risarcimento. Inquadrato correttamente, mi sembra che lo “storico” accordo sul meccanismo “delle perdite e dei danni”, di cui parlavano i principali mezzi di comunicazione il trenta novembre scorso, sia molto meno “storico” di quanto sembrasse. Anzi esso sembrerebbe evolversi al ribasso, visto che gli Stati Uniti, nelle trattative sviluppatesi in modo discreto nei mesi scorsi, avevano chiesto, senza ottenerlo, che l’accordo dichiarasse esplicitamente la volontarietà dei contributi. Ciò spiegherebbe, a mio avviso, la scandalosa esiguità del contributo USA al fondo: fidarsi è bene, ma…..

E, in attesa di altri “storici” eventi, rilassiamoci con qualche considerazione un po’ meno impegnativa. Ha suscitato qualche imbarazzo nel Regno Unito la palese contraddizione tra le posizioni di re Carlo III e quella del Primo ministro Sunak. Mentre il primo nel suo intervento a Dubai ha sciorinato le sue ormai consolidate posizioni a sostegno delle idee più radicali dell’attivismo climatico (riduzione drastica delle emissioni, costi quel che costi; trasferimenti miliardari ai Paesi in via di sviluppo e norme stringenti e vincolanti sulle politiche di mitigazione e di adattamento), il secondo ha lasciato capire che il suo Paese non è più in grado di dare più di quanto ha già dato in tema di lotta ai cambiamenti climatici, per cui è giunto il momento che altri facciano di più: il contribuente inglese è alla canna del gas. Un disimpegno che gli attivisti climatici non gli hanno perdonato, in quanto fa perdere al Regno il ruolo di guida della lotta al cambiamento, pardon, crisi climatica e che divide l’Inghilterra. Forse in questo nuovo atteggiamento del governo inglese deve essere cercata la spiegazione del contributo del Regno Unito al fondo “perdite e danni”: solo cinquanta milioni di dollari, la metà dei “grandi” Paesi europei. Nonostante ciò, ha potuto fare un figurone rispetto al “braccino corto” statunitense, giapponese e canadese.

Polemiche ha suscitato, inoltre, il gran numero di voli “privati” o “dedicati” con cui i delegati hanno raggiunto la sede della COP: quante inutili tonnellate di diossido di carbonio sono state emesse per raggiungere la COP 28? Particolarmente eclatante, in questo contesto, ancora una volta, il caso inglese: il re ed il primo ministro hanno utilizzato due aerei diversi per recarsi negli Emirati!

Un cenno all’intervento del nostro Presidente del Consiglio dei ministri che ha puntato il dito contro le politiche a sostegno degli alimenti “sintetici”: non è giusto che i ricchi possano accedere a cibi naturali ed i poveri devono accontentarsi di quelli di sintesi. Probabilmente si riferiva agli alimenti prodotti in laboratorio a partire da colture cellulari. Il suo intervento deve essere inquadrato, comunque, nella più generale “dichiarazione d’intenti”, per un’agricoltura ed un’industria alimentare “sostenibili ecologicamente”, approvata da circa 134 Parti della Conferenza. Qualche polemica ha riguardato il suo intervento: gli ambientalisti stigmatizzano la mancanza di riferimenti alla mitigazione ed all’adattamento.

Non può essere sottaciuta, inoltre, la dichiarazione del Segretario Generale delle Nazioni Unite: per mantenere l’impegno del contenimento dell’incremento delle temperature terrestri entro 1,5 °C rispetto all’epoca pre-industriale, occorre “dire addio alle energie inquinanti [fossili]”, senza se e senza ma. Mah!

E per finire una curiosità. Le Conferenze delle Parti sono sempre state un evento che calamita migliaia di attivisti, ma quella di Dubai ha battuto tutti i record: oltre ottantaquattro mila delegati! Come impronta di carbonio niente male.

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