La chiusura della COP28, una litania di scappatoie

Dicembre 15, 2023 Off Di miometeo

Il titolo è stato ispirato dal commento della rappresentante alla COP 28 dei piccoli Stati insulari: 39 Entità raggruppate nell’AOSIS che, quando serve, vengono indicati come le prime vittime della crisi climatica, ma che, quando si deve decidere, vengono accantonati senza tanti scrupoli, come è accaduto in occasione della plenaria finale: entrati in sala per discutere il documento finale, si sono visti proporre lo stesso per l’approvazione. Approvazione avvenuta per acclamazione e che, ovviamente, non ha minimamente tenuto conto delle richieste di questo sparuto gruppo di Parti.

Già questo basterebbe per delineare il bilancio finale della ventottesima Conferenza delle Parti, ma è necessario essere più analitici, altrimenti si cade negli errori di tanta stampa e pubblicistica nostrana.

Procediamo con ordine, analizzando i principali argomenti trattati dai delegati. Nell’analisi dei risultati dei singoli Organi sussidiari, contrariamente al mio solito, mi avvarrò dei contributi che il dr. Asad Rehman, esponente di primo piano dell’ente caritatevole inglese War on Want, ha espresso su The Guardian e che trovo altamente condivisibili.

– Bilancio globale delle emissioni (art. 14 dell’Accordo di Parigi)

Secondo molti media occidentali la COP 28 è stata un successo: i testi concordati hanno sancito l’inizio della fine dell’era dei combustibili fossili (si proprio così: “l’inizio della fine”) e rappresentano l’alba radiosa di un mondo privo di combustibili fossili. Personalmente non concordo con questo giudizio. Per quel che mi riguarda il documento finale relativo al bilancio globale delle emissioni non è assolutamente all’altezza delle aspettative: esso doveva sancire l’eliminazione graduale di TUTTI i combustibili fossili (phase out) e questo obbiettivo era considerato irrinunciabile, una linea rossa su cui non si poteva transigere. Nel testo la parola “eliminazione” è stata sostituita da una più rassicurante “transizione”. Tale parola diviene ancora più rassicurante, in quanto riferita principalmente alle emissioni. In altri termini, come ha ben chiosato un rappresentate dell’Arabia Saudita, nessun vincolo all’estrazione ed al commercio dei combustibili fossili, ma un limite alle emissioni da dover conseguire mediante l’utilizzo di tecnologie per la loro cattura e sequestro. Una vittoria piena ed inequivocabile degli Stati produttori di combustibili fossili ed una sconfitta netta di tutti gli altri. Questo se vogliamo essere seri, se invece vogliamo giocare con la retorica, allora prendiamo per buoni i resoconti dei media di massa e le dichiarazioni dei politici occidentali.

Questo mio drastico giudizio trova conforto in quel che ha scritto il dr. Rehman in un articolo pubblicato su The Guardian.

Ci saranno titoli sui giornali che parleranno di quale enorme progresso significhi semplicemente affermare questo [inserimento di un riferimento ai combustibili fossili], anche senza alcuna richiesta di azione reale. Ciò sarebbe stato molto gradito 20 o anche 10 anni fa, ma non è stata la svolta necessaria per prevenire la catastrofe climatica, per porre fine all’era dei combustibili fossili o per mettere al sicuro l’obbiettivo degli 1,5°.

Personalmente concordo con questo giudizio piuttosto negativo, come concordo con quanto continua a scrivere nel suo articolo Rehman:

I Paesi sviluppati hanno lavorato duramente per cercare di ottenere un titolo vuoto sui combustibili fossili da questa COP. Sono come re nudi. Il Regno Unito, gli Stati Uniti e l’UE non solo si sono rifiutati di discutere di tagliare le proprie emissioni in linea sia con l’equità che con la scienza, ma il loro accordo sulla “eliminazione graduale dei combustibili fossili” ha più scappatoie di un pezzo di formaggio svizzero. Ciò avviene senza il riconoscimento della responsabilità storica, o la ridistribuzione, o il rifacimento di un sistema finanziario che è stato truccato per mantenere i Paesi in via di sviluppo bloccati nello sfruttamento delle risorse semplicemente per riempire le casse dei paesi ricchi.

Nel titolo di questo articolo e nei commenti di Rehman si può condensare l’esito dello “storico” accordo sul bilancio globale delle emissioni. Non vi sono date stringenti, non ci sono obblighi, non sono indicati degli obbiettivi finali ed intermedi, tutto è lasciato alla libera interpretazione degli Stati ed alla loro buona volontà. Nel testo, inoltre, non si fa alcun cenno al gas che, evidentemente, viene visto come il combustibile che dovrebbe alimentare la transizione verso il traguardo delle emissioni nette nulle, fissato per il 2050.

Come sarà raggiunto questo traguardo? Riducendo le emissioni mediante sistemi di cattura e stoccaggio, triplicando la produzione di energia da fonti rinnovabili, raddoppiando l’efficienza energetica e, udite, udite, facendo ricorso alla fonte nucleare. Ecco una novità: la parola nucleare è entrata, seppur con ruolo marginale, nel linguaggio della COP.

E’ sparito dal testo ogni riferimento alla necessità di raggiungere il picco delle emissioni nel 2025: la Cina non ha consentito alcun limite temporale alla sua libertà di emettere.

Il testo concordato ha mantenuto l’obiettivo di 1,5°C ed ha riconosciuto che sarebbe stato necessario un taglio delle emissioni del 43% entro il 2030 e del 60% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019. Ciò comporta un notevole aumento dei Contributi Determinati a livello Nazionale (NDCs)  da presentare nel 2025, ma si tratta di indicatori del tutto volontari e, quindi, anche qui si lascia ampio spazio all’immaginazione.

Molte critiche ha suscitato il linguaggio dei testi: la parola più forte è stata “invita” e molti osservatori hanno storto la bocca: uno di esso ha detto che è come quando si invita la figlia a pulire la propria camera invece di dirle di farlo subito. L’esempio mi sembra calzante per rappresentare in modo plastico un linguaggio sfumato e poco, anzi, per nulla prescrittivo del documento. La solita vuota, inutile, dichiarazione di intenti fatta apposta per le pubbliche relazioni dei dirigenti politici. Del resto era difficile attendersi di più: rendere efficaci le politiche di transizione energetica comporta spese colossali di migliaia di miliardi di dollari all’anno e, si sa, di soldi in giro se ne vedono pochini. L’alternativa è aspettare che la transizione energetica avvenga spontaneamente, ma questo richiederebbe secoli, per cui meglio ripiegare su documenti che hanno un grande effetto mediatico, ma poche ricadute pratiche.

– Fondo perdite e danni (loss and damage)

La COP 28 ha sancito la nascita ufficiale del Fondo, ma, oggettivamente, si tratta di un involucro vuoto. Gli Stati occidentali sono stati molto abili ad evitare che nei documenti finali fosse presente un qualsiasi riferimento alla loro responsabilità storica e si sono ben guardati dal rendere vincolanti l’entità dei versamenti da effettuare per rimpinguare il fondo.

Anche a proposito del documento che ha stabilito la nascita del fondo, è degno di nota il commento del dr. Rahman:

Il giorno dell’apertura della conferenza è stato finalmente messo in funzione il fondo per le perdite ed i danni, anche se con impegni che sono una goccia nell’oceano rispetto all’entità dei danni. Quel fondo è stato creato dai nostri movimenti, per i quali si è battuto in un momento in cui molti nell’ambito delle Nazioni Unite, compresi gli ambientalisti tradizionali, affermavano apertamente che la giustizia [climatica] era una distrazione dal vero obiettivo di ridurre il carbonio. L’amministrazione americana, nel frattempo, ha affermato che l’ammissione [di responsabilità per i danni] rappresenterebbe una linea rossa e che non si assumerà mai la responsabilità per i danni causati.

Ecco, questo  è quanto pensano cli osservatori più smaliziati ed i rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo dei testi su cui si è raggiunto l’accordo alla COP 28. E, badate bene, si tratta di uomini e donne che credono ciecamente nella responsabilità dell’uomo nei cambiamenti climatici in corso e nella necessità di agire subito e con efficacia. La loro disillusione è palese e, leggendo i testi, ci si rende conto che essi hanno maledettamente ragione. Se  queste parole fossero scritte da uno scettico dei cambiamenti climatici prodotti dall’uomo, si griderebbe subito al negazionismo ed al disfattismo, ma dette da chi crede nella causa, assumono una valenza estremamente significativa circa l’esito della Conferenza.

– Giustizia climatica (transizione energetica equa)

In questo campo l’esito della COP 28 è stato del tutto deludente, come si può facilmente capire leggendo quanto ho scritto e riportato fino ad ora. Uno dei fari che dovrebbe guidare le Conferenze delle Parti, è costituito da una transizione energetica equa e giusta, che consenta ai Paesi meno sviluppati di raggiungere un adeguato livello di sviluppo, pur rinunciando agli economici combustibili fossili. Si dovrebbero finanziare, infatti, costosissimi impianti di energie rinnovabili, impianti di cattura e stoccaggio delle emissioni e via cantando. Il tutto a spese dei Paesi sviluppati o ricchi, per usare un termine piuttosto diffuso negli ambienti delle COP. La cosa è, però, più facile a dirsi che a farsi. Prendiamo l’Italia. Immaginiamo che riesca a darsi delle regole stringenti sul contenimento delle emissioni, riducendo, sempre per ipotesi, a zero le emissioni. Tali regole si tradurrebbero in costi enormi per noi cittadini, costretti ad intervenire sull’efficienza energetica di case e mezzi di trasporto: tutti chiederebbero a gran voce sussidi miliardari (ecobonus e bonus edilizi insegnano). A questi miliardi “domestici” bisognerebbe aggiungere quelli da utilizzare per finanziare l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili nei Paesi in via di sviluppo, per risarcire i danni e le perdite causati e per aumentarne la resilienza agli effetti del cambiamento climatico. Il problema è che questi soldi non ci sono, per cui possiamo solo promettere, senza dare. La transizione energetica, come impostata oggi, dopo le vaie COP, è profondamente ingiusta. Come sottolinea anche il dr. Rahman.

Affermare che [la COP 28 rappresenti] un trionfo, o qualcosa di simile, è semplicemente una bugia. Un’altra bugia da aggiungere a tutte quelle raccontate così spesso che coloro che le pronunciano cominciano a crederci: la bugia secondo cui i paesi ricchi si preoccupano della giustizia climatica. La menzogna secondo cui i diritti umani sono separati dalla giustizia climatica. La menzogna secondo cui Stati Uniti, Canada, Australia, Norvegia e Regno Unito hanno grandi ambizioni, mentre sono i Paesi in via di sviluppo a mancare.

– Mercato del carbonio (art. 6 dell’Accordo di Parigi)

Su questo fronte faccio presto. Tutto è stato rinviato sine die. Ci rivediamo il prossimo giugno a Bonn, al massimo il prossimo novembre a Baku. Si perché, alla fine, un risultato c’è stato: la prossima COP 29 si terrà in Azerbaijan, mentre la COP 30 si svolgerà in Brasile. Si alzano già oggi i lai degli attivisti climatici: un altro “petrostato” deciderà le sorti della COP 29!

I negoziati sui punti due e quattro dell’art. 6 si sono arenati e, quindi, i delegati hanno fatto ricorso alla temuta “regola 16” (rule 16) che, in mancanza di accordo totale, consente di rinviare tutto a data da destinarsi. La sorte toccata agli Organi sussidiari incaricati di condurre le trattative sui punti 6.2 e 6.4 dell’art. 6 dell’Accordo di Parigi (transizioni bilaterali e multilaterali e mercati vincolati), è stata la stessa di altri dieci Organi sussidiari, come riassunto nella tabella seguente elaborata da CarbonBrief. Sembra che questo sia stato un record: mai nella storia delle COP vi era stato un uso così massiccio della “regola 16”. Questo è stato, forse, un risultato effettivamente storico.

Quello del mercato del carbonio è un punto molto delicato, perché è alla base del bilancio delle emissioni. Esso è argomento molto dibattuto da anni perché comporta problemi contabili che falsificano il bilancio globale del carbonio: emissioni contabilizzate due o più volte (doppio conteggio effettuato dagli emettitori e da chi fornisce loro i certificati verdi) e strettamente legato a quelli trattati nelle discussioni degli altri Organi sussidiari. Come si può parlare, infatti, di bilancio globale del carbonio, se non si dispone di una banca dati certa e sicura? Come si può regolare la finanza, se non sappiamo quanto emettiamo e come compensiamo le emissioni? Come si può fissare il prezzo del carbonio, se non si sa quanto se ne emette e quanto se ne scambia?

A questo punto, credo di aver dato ad ogni lettore gli elementi per poter stabilire se la COP 28 è stata un fallimento o un successo. Perché decretare il fallimento o il successo di una COP, non dipende dai toni dei comunicati di questo o quel ministro, di questo o quel presidente, da questo o quell’attivista, ma da un esame dei testi dei documenti prodotti dalla Conferenza. Di molte di queste considerazioni sono debitore al dr. Simon Evans che svolge un lavoro massacrante nel tener conto dell’evoluzione delle COP, dall’interno delle sale dove si svolgono le trattative. Io ho imparato da lui a seguire i lavori, da lui ho appreso il metodo del conteggio delle parentesi e delle opzioni, per valutare lo stato d’avanzamento dei lavori. Con lui ho imparato che le COP ed i documenti prodotti sono un coacervo di norme inscindibile: non si può parlare di successo se esso non riguarda tutti i capitoli che confluiranno, infine, nell’Accordo finale.

E questo successo si valuta anche in base alla “forza” della terminologia utilizzata. A distanza di otto anni tutti possono rendersi conto di quanto fosse vuoto e privo di effetti lo “storico” Accordo di Parigi. Dopo otto anni non si è ancora riusciti a redigere uno straccio di quadro normativo che renda efficaci ed operativi i principi in esso enunciati. Pochissimi Paesi hanno cercato di raggiungere gli obbiettivi stabiliti a Parigi. Tra essi l’Unione Europea che si è dotata e si sta dotando di regole ferree per abbandonare l’uso dei combustibili fossili. Il resto del mondo continua ad emettere a rotta di collo e, difatti, le emissioni globali di diossido di carbonio sono state tali da portare la concentrazione atmosferica di CO2 a livelli assolutamente senza precedenti (almeno in epoca storica). Nel frattempo sono passati trent’anni dalla COP 1.

 

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